
Immagina un teatro di marionette abbandonato: le tende rosse impolverate, i fili annodati, e sul palco un Dio impaziente che esce sbattendo la porta. Ha chiuso gli occhi sulle nostre miserie. No, non è morto. È occupato. Sta facendo affari. E in sottofondo, Tom Waits, con la sua voce di ferro arrugginito, ci canta il nostro naufragio.
“The ship is sinking,” ripete come un mantra maligno. Il mondo affonda, e noi? Balliamo sul ponte, scambiando la tragedia per un cabaret. Ma ti sei mai chiesto chi ha costruito questa nave marcia? Non Dio. Noi. Con le nostre mani febbrili, con la nostra ossessione per il controllo, abbiamo inchiodato le assi una sull’altra, pur sapendo che il legno era marcio. Abbiamo chiamato questa rovina “civiltà” e ci siamo convinti che fosse inscalfibile. La follia divina, qui, è tutta nostra: un delirio collettivo in cui il fallimento diventa spettacolo.
“I’d sell your heart to the junkman, baby, for a buck, for a buck.” Riesci a sentirlo? Questo non è solo un verso: è una condanna. Chi è quel rigattiere che compra i nostri cuori? È la società stessa, che ci spoglia di ogni scintilla divina e ci restituisce oggetti. Hai mai pensato a quanto valiamo davvero? Un dollaro, forse meno. Il cuore non è più sacro, è solo merce. È qui che il bene e il male si abbracciano: nel compromesso, nel cinismo, in un mondo in cui persino l’anima diventa un pezzo da svendere.
La voce di Waits diventa una risata gutturale, un ruggito che fa tremare il palco: “God’s away, God’s away on business, business!” Non è forse la verità? Dio ci ha lasciati, ma non per cattiveria. Siamo noi ad averlo spinto via, chiudendo la porta con un sorriso soddisfatto. Il male, dopotutto, è più facile da maneggiare. È concreto, tangibile, si può vendere e comprare. Ma il bene? Troppo complicato. Troppo fragile. Abbiamo trasformato la libertà in una prigione dorata, un inferno tiepido dove tutti si sentono al sicuro, ma nessuno è veramente vivo.
E tu? Credi davvero che Dio sia il colpevole? Non vedi che siamo noi gli autori di questa farsa? Le nostre mani sono sporche di cenere e sangue, eppure continuiamo a puntare il dito verso il cielo, aspettando una risposta che non arriverà mai. La follia divina è uno specchio: riflette la nostra incapacità di accettare il caos dentro di noi.
Ma la follia divina è anche una danza: il sacro e il profano si intrecciano, il male diventa necessario per comprendere il bene. Non c’è giudizio in questa canzone, solo un teatro dell’assurdo in cui ognuno recita la sua parte. Dio è il burattinaio invisibile, e noi siamo i suoi pupazzi, incapaci di fermarci mentre il mondo brucia.
E allora, chi è davvero pazzo? Dio, che ci ha lasciati al nostro destino, o noi, che continuiamo a cantare mentre la nave affonda?
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