
Immagina una stanza. Spoglia, se non fosse per un basso che pulsa lento, ossessivo, come un cuore ormai dissociato da chi dovrebbe tenerlo in petto. È la musica che ti trascina, ipnotica, un liquido denso che ti avvolge fino alle narici, e in mezzo a tutto questo caos sospeso c’è Morgan. Un demiurgo, un folle gentiluomo con il piede sinistro – quello giusto, dice – e uno sguardo che sembra sapere tutto di te, anche ciò che non osi ammettere.
Ti sussurra, quasi con tenerezza: “Forse già lo sai, che a volte la follia sembra l’unica via per la felicità.” Lo sai, vero? L’hai sempre saputo. La felicità non è mai stata lì, su un piedistallo ben illuminato, ma giù nel pozzo, dove la luce non arriva e l’aria è umida di paure e desideri repressi. E mentre lo dice, eccolo lì, il "ragazzo chiamato Pazzo", che emerge dal fondo con le mani sporche di terra e un ghigno storto. “Sto meglio in un pozzo che su un piedistallo,” ti dice. E per un attimo lo invidi.
Il basso continua a pulsare, come un colpo sordo dietro il cranio. Non c’è fretta, solo quel ritmo costante che ti spinge avanti, sempre più dentro. “Ho deciso di perdermi nel mondo, anche se sprofondo.” Le parole sono un invito, una promessa distorta. Perderti: ti rendi conto del peso di quella parola? Non è solo smarrirsi, ma cancellarsi, annullare ogni confine. Diventare un’eco nel vuoto. E sai che non c’è ritorno.
La bellezza di tutto questo è devastante. “Prendo tutta la cosmogonia e la butto via.” Ogni cosa che hai creduto, ogni regola, ogni stella del tuo personale firmamento: buttata via con un gesto teatrale, quasi beffardo. E poi? Poi ti butti anche tu, perché che senso avrebbe restare intero, quando tutto intorno si sgretola?
E in questo perdersi, non è forse un lasciarsi andare? Un abbandonare le paure, scorrere come fiumi impetuosi che abbattono ogni ostacolo, mescolandosi alla terra e al cielo? “Lascio che le cose mi portino altrove.” Sì, perché è altrove che troviamo la nostra essenza, un fluire continuo, un danzare con il mondo, una resa totale alla vita che ci circonda.
E allora, eccola, l’idea più folle: “Applico alla vita i puntini di sospensione.” Ti rendi conto del genio perverso di questa frase?
I puntini di sospensione non sono un silenzio, ma una ferita. Lasciano spazio all’ignoto, al non detto, a tutto ciò che non osi nemmeno immaginare. È come lasciare la porta aperta sapendo che entreranno gli spettri, ma non importa. Perché nell’incoscienza, come dice Morgan, “non c’è negazione.”
Poi, il colpo finale: “Un ultimo sguardo commosso all’arredamento, e chi s’è visto, s’è visto.” L’arredamento. Ridicolo, vero? La banalità di una stanza contro l’immensità di una fuga cosmica. Ma è qui che sta il grottesco, la bellezza perversa: il disastro si compie nei dettagli più insignificanti. È nell’addio agli oggetti, nella commozione per ciò che hai sempre dato per scontato, che la follia diventa divina.
E allora, dove ti porta tutto questo? Lontano, certo, ma non è questo il punto. Altrove non è un luogo, è uno stato della psiche. È la resa totale, il momento in cui smetti di cercare e lasci che il mondo faccia di te ciò che vuole. Ti sei mai sentito così? Ti sei mai trovato a un passo dal baratro, con il piede sinistro già sollevato, pronto a cadere, o forse a volare?
Morgan ti dà il coraggio di fare quel passo. Di perdere tutto. Di perderti. E mentre il pianoforte cede posto al dolce silenzio, l’eco delle sue parole continua a risuonare: non importa dove.
E tu, avresti il coraggio di lasciare che le cose ti portino altrove, senza opporre resistenza?
Aggiungi commento
Commenti